
«La sopravvivenza dell’umanità dipende dalla capacità dell’uomo di risolvere i problemi dell’ingiustizia razziale, della povertà e della guerra»
All’alba del 16 settembre 2025, l’esercito israeliano ha lanciato una offensiva militare contro Gaza City, bombardando e occupando la città con truppe e carri armati. L’azione armata di oggi è solo l’ultima tappa del genocidio pianificato, organizzato e perpetrato dal governo israeliano con l’obiettivo di «distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale», ovvero gli abitanti della Striscia di Gaza e della Cisgiordania.
Le parole del capo della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti nei territori palestinesi occupati, Navi Pillay, non lasciano spazio a commenti o congetture: «Siamo giunti alla conclusione che a Gaza è in corso un genocidio e che continua a verificarsi, e la responsabilità ricade sullo Stato di Israele».
Le notizie e gli articoli che vengono pubblicati oggi su Gaza dai giornali italiani sono, quando va bene, bollettini di morti e feriti, mentre quando va male tentativi assurdi e disumani di continuare a giustificare il massacro, la distruzione e l’omicidio sistematico dei palestinesi come atto di guerra. Per questo abbiamo deciso di suggerirti la lettura di un reportage d’archivio, che — assurda coincidenza — compie 43 anni proprio oggi: il massacro di Sabra e Chatila.
L’ha scritto Robert Fisk, giornalista inglese che per tutta la vita ha fatto il corrispondente tra in Libano, e che quel giorno di settembre del 1982 era l’unico giornalista occidentale a trovarsi nel campo profughi in cui le truppe paramiliatri libanesi, aiutate e supportate dall’esercito israeliano, massacrarono migliaia di civili palestinesi disarmati.
«All’inizio non usammo la parola massacro», scrive Fisk. «Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostre bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.
Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco».
Lo puoi leggere interamente qui. Se ti interessa approfondire e leggere altre cose che ha scritto Robert Fisk, i suoi libri sono stati tradotti in Italia dal Saggiatore.
Foto | Jaber Jehad Badwan, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
«La sopravvivenza dell’umanità dipende dalla capacità dell’uomo di risolvere i problemi dell’ingiustizia razziale, della povertà e della guerra»
Storia di una domanda che sembra di stretta attualità oggi, ma che in realtà ci si pone da anni e che da anni ha la stessa risposta.
Gli “accordi di pace” che si spartiscono il Medio Oriente hanno radici lontane, come l’accordo di Sykes – Picot, del 1916, che conteneva già tutto quello che sarebbe successo nei 110 anni successivi.
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