
«La sopravvivenza dell’umanità dipende dalla capacità dell’uomo di risolvere i problemi dell’ingiustizia razziale, della povertà e della guerra»
Sabato scorso l’Unione Africana (UA), l’organizzazione continentale con sede ad Addis Abeba, in Etiopia, che rappresenta a livello internazionale 55 nazioni dell’Africa, è entrata ufficialmente nel G20 in qualità di “membro permanente”.
L’invito ufficiale all’Unione Africana era stato di Narendra Modi, il presidente dell’India che ospita il vertice a New Delhi, e nessun paese membro del Gruppo delle venti economie più grandi del mondo si è opposto.
L’adesione permanente al G20 dell’Africa segnala l’ascesa di un continente la cui giovane popolazione (l’età media del continente è 18.8 anni), pari a circa 1,3 miliardi di persone, è destinata a raddoppiare entro il 2050 e a costituire un quarto della popolazione del pianeta. I 55 stati membri dell’UA chiedono sostanziali riforme del sistema finanziario globale per rompere quelle che oggi vengono viste come iniquità, che portano i paesi africani a pagare più degli altri per prendere in prestito denaro, cosa che aggrava sempre più il loro debito estero. Il continente africano possiede il 60% delle risorse energetiche rinnovabili mondiali e oltre il 30% dei minerali necessari alla realizzazione delle tecnologie rinnovabili (solo il Congo possiede quasi la metà del cobalto mondiale, un metallo essenziale per realizzare le batterie agli ioni di litio).
Ora, in quanto membro di alto profilo del G20, le richieste dell’Africa saranno più difficili da ignorare. La Cina è oggi il principale partner commerciale dell’Africa e uno dei suoi maggiori finanziatori. La Russia è il suo principale fornitore di armi. Le nazioni del Golfo sono diventate alcuni dei maggiori investitori del continente. La più grande base militare e ambasciata turca all’estero si trova in Somalia. Israele e Iran stanno aumentando la loro portata alla ricerca di partner.
«La sopravvivenza dell’umanità dipende dalla capacità dell’uomo di risolvere i problemi dell’ingiustizia razziale, della povertà e della guerra»
Storia di una domanda che sembra di stretta attualità oggi, ma che in realtà ci si pone da anni e che da anni ha la stessa risposta.
Gli “accordi di pace” che si spartiscono il Medio Oriente hanno radici lontane, come l’accordo di Sykes – Picot, del 1916, che conteneva già tutto quello che sarebbe successo nei 110 anni successivi.
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